Racconto storico: ricordi di un viaggio del 1936

dove mettere i piedi. Non so quanto ci volle per risalire, per tornare all’aperto. Mi parvero secoli, L’aria calda e umida della notte mi sembrò un salutare refrigerio. La scaletta di corda era sempre al suo posto, ma le mani mi tremavano. Avevo paura di cadere. Non vedevo nessuno. Cominciai a scendere, con la scaletta, lungo la fiancata, fino al bordo dell’acqua.
La scialuppa che mi portò a terra era semivuota: sul fondo, due ustionati che si lamentavano. Un’ambulanza ci fece arrivare all’ospedale, dove i feriti aumentavano di momento in momento. Medici, infermieri, volontari, si prodigavano senza sosta a tagliare gli abiti, a medicare, a coprire con un lenzuolo chi aveva finito di soffrire.
Mi dissero che la signora coi due bambini era dietro quella tenda bianca e chiedeva continuamente del figlio che non l’aveva seguita quando era stata portata via in barella.
Era lì, sudata ma senza apparenti segni di sofferenza sul volto. Al suo fianco, su una sedia, con la testa fasciata, mio fratello; dall’altro lato, in un lettino di fortuna, dormiva una bambina, mia sorella.
Non ci parlammo, limitandoci a fissarci negli occhi. Le presi la mano.
“Sto bene” –mi disse- “un po’ pesta. Domani, però, non potrò farti lo strudel per il tuo compleanno.”
Ero restato col fagotto sulle spalle. Lo tolsi, lo aprii. Quando vide la borsa, gli occhi le si riempirono di lacrime. Volle che le mostrassi il pendentif che indossava il giorno delle sue nozze.
Mi strinse forte la mano: “Mi sarebbe spiaciuto perderlo.”
Richiusi tutto e misi la borsa vicino a lei, per terra.
Non avremmo mai più rivisto, insieme, quelle cose.

P.P.
...

Autore: pp


















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